Non saprei dire se la vita sia un diritto, mi verrebbe da dire, così d'impatto, che sia più un dovere, un contributo necessario a questa strana contraddizione disallineata dal cosmo, che abbiamo chiamato vita.
La abbiamo talmente nobilitata, da darle essenza del soffio di Dio, cioè di un'Entità che è al di sopra di tutto e che tutto può, anche creare contrapposizione nell'ambito suo creato.
La vita pone, quindi, questioni etiche fin dalla sua stessa definizione, la prima domanda che necessiterebbe una risposta è quanto potere abbia l'Uomo sulla vita e quanto questa ne abbia su di lui. Quanto incidano i diritti dell'Uno e dell'altra sulle rispettive libertà.
La o le risposte sono tutt'altro che semplici e quasi mai univoche. Non esiste un manuale delle istruzioni a cui fare riferimento e quelli che ci sono, soddisfano solo la parte dei seguaci che li hanno compilati o eletti a proprio modello comportamentale.
Certo che se dovessimo addivenire alla conclusione che la vita è un dovere, invece che un diritto, questa avrebbe la libertà e l'arbitrarietà di separarsi dall'Uomo, ma non sarebbe percorribile il sentiero contrario. Tuttavia, se affermiamo che la vita è un diritto, mettiamo nelle mani dell'Uomo anche la libertà di scegliere se avvalersi o meno di questo diritto, metteremmo cioè nelle mani di ogni singolo individuo la facoltà di interrompere il rapporto con la vita, quando questo venga, a insindacabile giudizio del singolo, ritenuto non adeguato alle aspettative minime di dignità e merito.
La questione della morte "somministrata" in modo assistito a un tetraplegico non vedente che aveva espresso la volontà di interrompere il suo percorso di contrasto col cosmo, ci lancia una sfida sociale che non è possibile non cogliere, perchè se è vero che ciascuno di noi può decidere di chiudere la sua esperienza di vita coi mezzi che ritiene più opportuni, purchè ne abbia il coraggio e la capacità, altrettanto non si può dire di quegli esseri che il Fato ha costretto in condizioni di grave inabilità.
Quindi la domanda è possono godere queste persone, nel pieno delle loro facoltà mentali, godere di una libertà estrema, in cui non possono essere equiparati ai loro simili "abili"?
Se la risposta è sì, e da un punto di vista laico non può essere diversa, occorre mettere a punto legislazioni e strutture che possano assistere chi non ce la fa.
Assodato questo, la faccenda si complica e si ritorna dal campo delle libertà a quello dei diritti, infatti, perchè un "disabile" può accedere a questo genere di "aiuto", mentre una persona che non abbia quella determinata tipologia di problemi, ma che comunque scelga, in assoluta libertà e autonomia, di chiudere la sua esperienza di vita, non può richiedere di usufruire dello stesso trattamento?
L'autodeterminazione dell'interruzione della vita può essere esclusivo appannaggio dei non autosufficienti o, dal momento che passa il concetto di diritto, debba diventare un'opportunità a disposizione di qualsiasi cittadino che ne faccia richiesta?
Di più, possono accettare lo Stato e la Società di diventare esecutori materiali di suicidi e togliere così al verbo la connotazione di riflessivo che la contraddistingue?
E chi sia psicologicamente più debole e in affanno, merita in questa nuova società di essere soppresso su richiesta?
Non ho risposte, anzi le ho, ma le domande sono (forse) sbagliate.