venerdì 29 settembre 2017

Il rimedio è la povertà

Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.

Per la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.

Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.

Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.

Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.

Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.

Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.

Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.

Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.

Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.

I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.


Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».


Goffredo Parise
Corriere della Sera
30 giugno 1974

domenica 24 settembre 2017

Servirebbe un altro Marx, ma la politica oggi è degli stupidi.

di Antonello Caporale 
“Questo sarebbe il tempo giusto per un nuovo Marx, ma il pensiero non si coltiva in serra e la storia non coincide con la nostra biografia. Avremmo bisogno di uomini che stiano un gradino più in alto del resto della società e invece ci ritroviamo a essere governati con gente che è risucchiata nel gorgo della stupidità. Come si può pensare alla rivoluzione – qualunque tipo o modello di riforma strutturale dell’esistente – se il nostro sguardo sul mondo è destinato per tutto il giorno unicamente alle variazioni sul display del nostro telefonino?”.
Era il 1867 quando fu pubblicato il Libro I del Capitale di Karl Marx. Centocinquanta anni fa il filosofo di Treviri mandò alle stampe il volume che avrebbe promosso, sostenuto e accompagnato passioni e reazioni, condotto in piazza milioni di persone, trasformando il senso del giusto e dell’ingiusto. E Aldo Masullo, classe 1923, massimo studioso delle differenze tra idealismo e materialismo, ha attraversato il secolo scorso leggendo e rileggendo Marx per i suoi studenti.
“Un’opera immensa. Ha annunciato il nuovo mondo. Ha spiegato e anticipato i caratteri del mondo borghese, del principio del tutti almeno formalmente uguali, della statuizione che ciascuno, indifferentemente dalla condizione sociale, è pari all’altro. Si usciva dal feudalesimo, dalla vita legata dallo status: feudatario, vassallo, plebeo. Grazie a lui si apre il mondo moderno, si afferma il principio della uguaglianza astratta. Sia che tu sia dritto o gobbo, intelligente o stupido, avrai da pagare le stesse mie tasse”.
Marx sembra Dio.
“L’enormità del suo pensiero non è sempre valutabile positivamente. Perché tutto ciò che è enorme straripa di fronte alle necessità dell’uomo. La storia che noi viviamo è sempre più grande della nostra condizione”.
Era troppo avanti?
“Sì, potremmo dire con un linguaggio attuale che ha esondato un po’”.
Non c’è dubbio però che grazie a lui il lavoro non è divenuto solo merce da vendere ma anche un valore da difendere.
“Quanto è stata grande e rivoluzionaria questa consapevolezza? Quanto ha fatto Marx perché fosse contrastato il principio secondo il quale lavoratore vende forza lavoro e il capitalista lo compra. Il teorema per cui tutto si può comprare e tutto si può vendere. E infatti oggi si vende anche la dignità. Tutto ha un prezzo: nelle democrazie fragili sudamericane o in quelle africane non c’è giudice che non si possa comprare, non c’è sentenza che non si possa addolcire”.
Lei parla dell’oggi, come se i progressi del secolo scorso non fossero serviti a niente. Tutto regredisce, si torna indietro.
“No. Ricordi che la storia è dinamica, è movimento e non coincide con il tempo che viviamo. La grandezza di Marx è stata quella di aver aiutato l’umanità almeno a ricercare forme nuove di vita, a conquistare spazi in cui la dignità e la libertà acquisissero un senso diverso e nuovo”.
Il comunismo relegò in gattabuia le libertà e costrinse milioni di persone a una vita di stenti.
“Parlo dei diritti conquistati durante le grandi lotte sociali nell’Occidente libero e democratico. Grazie a quella spinta teorica siamo giunti allo sciopero, che è un diritto diverso dalla rivoluzione o dalla sovversione. Si stabilisce attraverso delle regole la possibilità del massimo conflitto col massimo rispetto della legge. È una cosa enorme”.
Perché oggi sembra tutto così lontano, così perduto? Non ha più senso parlare di lotta di classe, fa sorridere solo immaginarla possibile. E i diritti regrediscono, il lavoro torna a essere merce, quindi ad avere un prezzo senza nessun valore.
“Quando si hanno trasformazioni degli assetti sociali così cruente, quando la classe dirigente si connette fino a divenire satellite del potere finanziario, il capitale, o meglio i capitalisti, non trovano più conveniente investire nella capacità produttiva, ma investono nel circuito finanziario globale. La moneta produce moneta e tutto si concentra nello sviluppo di tecnologie che riducano la necessità dell’apporto della forza lavoro. Piano piano il lavoro manuale viene dismesso, poi anche quello intellettuale non creativo”.
L’operaio come una escrescenza sociale.
“Bauman parla di scarto. Divengono elementi di scarto. Certo, non succederà che finiremo di morire di fame ma si ridurrà il prezzo e il valore del lavoro. Si entra nel campo della misericordia, della pietas”.
Il declino inarrestabile.
“Lei si fa condizionare dall’angoscia dell’attualità che non trova risposte. Ma i tempi della storia non corrispondono a quelli della cronaca. E se, come abbiamo detto e ripetuto, la storia è movimento, le crisi recessive sono parti di quel movimento”.
Quindi cosa resta del grande Marx, solo cenere?
“Il suo pensiero ha costruito il mondo nuovo, il mondo moderno che abbiamo conosciuto.
La regressione civile ed economica che stiamo vivendo non può in ogni caso sospendere i caratteri fondativi della natura umana, l’elementarietà dell’uomo con i suoi bisogni indefettibili e irrinunciabili. È certo che l’uomo continuerà a mangiare, a sperare, a fare l’amore”.
Non ci sono più i pensatori di una volta.
“È la constatazione di una povertà generale e trasversale. Non è solo la classe dirigente del nostro Paese, è l’autorità che ha perso ogni distintivo di capacità di guardare oltre. Alzi lo sguardo e cosa vedi? Cordate di leader collegati a cordate di multinazionali, in una cointeressenza tra funzione di governo e speculazione finanziaria che erode spazi di libertà, di avanzamento professionale e culturale. C’è poi una parte del mondo soggiogata dal circuito malefico dell’industria delle armi che la priva – è il caso dell’Africa e dell’Oriente – di ogni dignità e la costringe a una migrazione senza diritti”.
Ma abbiamo detto che l’uomo spera.
“Questo è il tempo della stupidità al potere. La storia ci dirà quanto avrà resistito”.


Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2017


giovedì 21 settembre 2017

Saggezza d'altri tempi

Ci sono molti sentieri che portano nello stesso posto.
(proverbio Apachi)

domenica 17 settembre 2017

Da "Altra Toscana"

Nubifragio a Livorno, la tragedia e il balletto delle irresponsabilità

di FILIPPO PETROCELLI
Nel disastro di Livorno e negli sconcertanti siparietti che l’hanno seguito c’è un dato incontrovertibile: il sindaco Filippo Nogarin, l’autorità preposta a coordinare le attività di protezione civile sul territorio comunale, quella notte non era presente. Perché, non è dato saperlo. Forse dormiva, ed è stato svegliato dal suo capogabinetto solo alle 6.45 di domenica mattina quando il dramma si era già consumato, come ha affermato in un comunicato stampa di giovedì 14 settembre. Forse invece, come ha raccontato in una emblematica intervista rilasciata il giorno prima a Michela Berti del Telegrafo, stava togliendo l’acqua dallo scantinato di casa sua allagato e non si è reso conto di ciò che gli succedeva intorno. Voleva telefonare ma non aveva campo, per nessuno dei due telefoni a suo disposizione; poi voleva uscire ma non riusciva ad aprire l’avvolgibile elettrico, né il cancello, per via del black-out. Insomma, un insieme di circostanze sfavorevoli che lascia interdetti.
Solo dopo le 7.30 di domenica mattina Nogarin, “senza aver preso neanche un caffè” come ha dichiarato ai Tg e senza una lacrima per i concittadini morti, si è fatto vivo negli uffici dove per tutta la notte soltanto un tecnico reperibile aveva tentato di raccapezzarsi in mezzo agli elementi naturali scatenati.
Secondo una ricostruzione affidabile, a un certo punto nella sala operativa si è trovato da solo il geometra comunale Luca Soriani. I suoi diretti superiori – Michela Pedini e Riccardo Stefanini – erano in ferie. Riccardo Pucciarelli, comandante della polizia municipale e dirigente della protezione civile comunale, vive fuori Livorno ed era a casa. A un certo punto Soriani, pur di avere a disposizione una base e un supporto, si è spostato dai vigili del fuoco. La sala operativa è rimasta vuota quando Soriani è uscito, come scrive nel report, per controllare la situazione. La gente chiamava, chiedeva aiuto e non rispondeva nessuno.
Eppure poche settimane prima il sindaco Nogarin, nella sua strombazzata rivoluzione di mezza estate della macchina comunale, di fatto aveva smantellato il dipartimento di protezione civile. Il dirigente Leonardo Gonnelli, quindici anni nella protezione civile e una fama di persona competente e scrupolosa, oltre che lavoratore indefesso, è stato spedito al traffico. Non solo, il grosso del suo staff fatto di geologi e geometri esperti, è stato disperso in altri uffici. La protezione civile di fatto è stata derubricata a sotto-ufficio della polizia municipale, e Pucciarelli non ha fatto in tempo ad attrezzarsi con i tecnici rimasti e probabilmente a prendere contezza di quello che rappresenta un ufficio del genere.
Una spiegazione razionale di tutto questo non c’è. I rumors vogliono che Gonnelli sia considerato troppo legato alla precedente amministrazione e amico personale dell’ex sindaco Alessandro Cosimi. Pare poi che a Livorno il sistema di Alert system (messo in piedi dall’ex dirigente del settore) ovvero l’allerta telefonica che scatta a seguito delle allerte della protezione civile regionale, non può essere diramata se non “sentito il sindaco”. E quella notte il sindaco, come si è detto, non c’era.
Una motivazione ufficiale dell’emarginazione di Gonnelli e dello smantellamento del suo ufficio non c’è. Ma è evidente che si è sottovalutata l’importanza di un sistema comunale di protezione civile strutturato, in grado di monitorare il territorio dopo le allerte, e gestire le emergenze, avvisando la popolazione. In casi estremi, di evacuarla.
Resta l’incredulità e il dolore per quelle persone che sono morte: Martina, la giovane travolta nella sua casa e portata dalla furia dell’acqua a chilometri di distanza, la famiglia Ramacciotti, mamma, babbo e un bambino (solo la piccola Camilla di tre anni è stata salvata da un vicino, mentre il nonno tentava l’impossibile ed è annegato a sua volta). Amarezza e impotenza per tutti quelli che hanno letteralmente perso case e attività. E sono tanti.
Certo, l’evento meteo è stato enorme, talmente grande che danni ingenti ci sarebbero stati comunque. Forse se si fosse invitato, con l’allerta telefonica, o con le pattuglie di vigili muniti di megafoni, la gente ad abbandonare i piani bassi delle case, come ha fatto invece il sindaco di Collesalvetti, qualcuno poteva salvarsi. Chissà. Resta il fatto che a Livorno nessuno ci ha nemmeno provato ad avvertire dell’imminente pericolo.
A coronamento del tutto, l’attacco pronti via tramite Tv, comunicati stampa e social del sindaco Nogarin alla Regione, rea di emanare un giorno sì e uno no un’allerta arancione (“e poi a volte non è caduta nemmeno una goccia d’acqua”); la risposta piccata al vescovo, reo di aver chiesto perché la città non era stata avvisata (“lui si occupi delle anime”); la gaffe, davvero infelice in diretta tv (“io non sono mica venuto giù con la piena”, crudele per i parenti di chi, come la giovane Martina, con la piena è stata davvero trascinata dalla collina fino al mare). E infine il caso – inaccettabile vista la tragedia – del comunicato stampa sbagliato (titolo: “Nubifragio, così si è mossa la protezione civile comunale”), che ha portato a dimissioni del portavoce, ritiro delle dimissioni ed ennesimo scaricabarile.
Vale la pena di soffermarsi su questo curioso girotondo comunicativo. Mercoledì in tardo pomeriggio l’ufficio comunicazione e marketing del Comune spedisce una nota con il report delle attività svolte dalla protezione civile nella notte tra sabato 9 e domenica 10 settembre. Il report si conclude alle 22 e qualcosa, quindi i giornali il giorno escono con la notizia che la protezione civile da una cert’ora in poi non aveva fatto più nulla. Colpo di scena, si dimette il portavoce del sindaco Tommaso Tafi, dichiarando che del comunicato erroneamente non ne era stato inviato un pezzo, assumendosi tutta la responsabilità dell’errore e del danno di immagine causato alla protezione civile del Comune che invece aveva “affrontato l’emergenza con professionalità, tempismo e coraggio”.
A seguire viene mandato alla stampa il comunicato completo (leggi qui). Da cui peraltro si evince la solitudine del povero tecnico reperibile. Passa qualche ora e Nogarin respinge le dimissioni di Tafi, anzi, il suo gesto nobile (“Un errore può capitare a chiunque”) puntando invece il dito sul suo capogabinetto, Massimiliano Lami, e rettificando parzialmente la ricostruzione del comunicato con il report della notte drammatica: “Voglio però precisare, rispetto alla ricostruzione effettuata dalla Protezione civile – afferma il primo cittadino –  che io sono stato avvertito del disastro per la prima volta dal mio capo di gabinetto, Massimiliano Lami, alle ore 6.46”. Vale a dire che mentre toglieva l’acqua dal suo scantinato non gli era venuto in mente di informarsi di come stesse il resto della città. Ma tant’è.
E le curiosità non sono finite. Pure il dirigente della protezione civile, Riccardo Pucciarelli, fa la sua bella precisazione sul comunicato con il report della protezione civile, evidentemente senza averlo riletto prima di inoltrarlo. Infatti si legge nel comunicato: “Le operazioni in cooperazione con i VVF si svolgono tra le ore 04.10 e le ore 7.30 circa presso la sala operativa VVF. In questo periodo di tempo il referente della protezione civile segnala l’evolversi della situazione sia al dirigente della protezione civile Pucciarelli sia al sindaco”. Pucciarelli, da parte sua, si contraddice: “Preciso che nel periodo di tempo sopraindicato (tra le ore 4,10 e le ore 7,30) non ho ricevuto alcuna comunicazione telefonica da parte della protezione civile, né vi è stato alcun tentativo di contatto telefonico registrato sul mio numero di cellulare”.
Si bisticcia, ci si rimpalla la responsabilità, si gioca a flipper con i comunicati stampa, senza una parola di cordoglio per i morti e per i livornesi che hanno perso casa e attività. Chi si aspettava le dimissioni del sindaco, resterà deluso. Certo non ha colpa Nogarin dell’evento meteo eccezionale, dei mesi di siccità che hanno fatto scivolare l’acqua sul terreno come se fosse stato di marmo, dell’edificazione eccessiva sulle colline livornesi e dei fiumi tombati decenni prima. Ma ricordiamoci che Livorno ha già una storia da raccontare in cui la mancanza di una organizzazione per fronteggiare situazioni di emergenza è finita in una disastro: “Moby Prince, 140 morti, nessun colpevole”.
Qualcuno la responsabilità di non aver avvisato e di non aver messo in atto le procedure previste dalla legge in materia di protezione civile se le dovrà pur prendere. O no?